Thursday, December 29, 2005

Salute, malattia e guarigione.

Gli antichi medici erano soliti parlare di "eucrasia", cioè di buona mescolanza degli umori corporei (i 4 fluidi che compongono un organismo: sangue, flegma, bile e atrabile).
La salute, nella concezione ippocratica prima, galenica poi, corrispondeva ad uno stato di equilibrio tra le componenti corporee, che, qualora fosse venuto meno (discrasia), avrebbe scatenato un processo patologico.
La terapia era dunque volta al recupero dell'originaria armonia, condizione propria di ogni essere umano.

Nei secoli, soprattutto con l'affermarsi delle teorie batteriologiche, che pongono come causa eziologica delle malattie virus e batteri, tale concezione si è andata perdendo.

Quando si parla di malattia, oggigiorno, si tende a riferirsi quasi unicamente ad un'entità (più o meno identificabile) esterna all'organismo e da esso indipendente. Un "quid" che va a guastare l'integrità di un individuo.

Credo che questa sia una visione parzialmente pericolosa della malattia.

Non si può prescindere, a mio parere, da una considerazione molto importante: la malattia non coincide con la sua causa scatenante. Un virus non è una patologia. Essa è, in realtà, una manifestazione di un'interazione tra due entità: il fattore eziologico e l'individuo nel quale questo agisce. Definirei la malattia come una manifestazione fenomenologica di questo rapporto.

Quello che affermo è tanto più vero se si considerano malattie molto "attuali", come quelle genetiche (praticamente tutte le malattie hanno una certa predisposizione ereditaria).
In questo caso la causa è davvero, unicamente, la perdita di "armonia", se posso ampliare questo termine, riferendomi, per esempio, alla corretta sequenza di aminoacidi in una o più proteine.


Va da sè che il centro di un processo patologico non può essere la causa eziologica, ma l'individuo, il paziente.
E' per questo che i pazienti sono tutti diversi, che nulla è uguale al caso da manuale.
Dimenticando questo, si può pensare di curare veramente poco.

Qualcuno, addirittura, sostiene, in senso un po' provocatorio che le malattie siano, in ultima istanza, malattie dell'anima. Modi con cui l'anima ci "pone delle domande per guarire nel profondo".

Al di là degli eccessi, vale la pena non sottovalutare l'aspetto "emotivo" della malattia. Il corpo ci parla, sempre. Il corpo, a livello inconscio, sembra "capire", "percepire" che qualcosa non va come dovrebbe andare, che c'è un elemento di disturbo, sia esso un organismo patogeno o un errore nel nostro codice genetico. Ed il copro sembra "sapere" la strada da seguire per guarire.
Molti dei segni e dei sintomi che, in un paziente, non riescono ad essere classificati nella "nosologia da manuale" potrebbero essere compresi, se interpretati come linguaggio inespresso, inconscio del corpo.

Quello che potrebbe essere un elemento fondamentale dell'anamnesi prima, della prognosi poi, spesso rimane nascosto, il paziente non sa, non è capace di esprimerlo consciamente, il medico non sa o non vuole ascoltarlo.

L'inconscio, che, a mio parere, non è altro che ciò che noi, per ignoranza, non conosciamo e a cui, per questo, non diamo importanza, ci indirizzerebbe verso la guarigione.

E se vogliamo passare da un piano astratto ad uno più concreto, oggi, nel secolo della terapia genica e, soprattutto, delle staminali, è sempre più evidente che la cura viene davvero "da dentro".
Le cellule staminali potrebbero davvero rivelarsi la risposta a quelle "domande che l'anima ci pone per guarire nel profondo".

Sembra seriamente che ogni individuo aspiri profondamente al benessere, all'armonia alla felicità.
Da questo non possiamo che rivalutare profondamente il dolore e la sofferenza non come qualcosa da temere e da fuggire, ma come un elemento che ci spinga a voler studiare, capire, superare i nostri limiti.
La sofferenza come l'unica strada che, se rivalutata e compresa, non è che l'inizio della guarigione.

Il problema vero è che abbiamo paura di ciò che non conosciamo, perchè ci rende insicuri. Preferiamo evitare di considerare aspetti della malattia che complicherebbero immensamente le cose. Preferiamo i palliativi, perchè ci mettono la coscienza a posto. Come lo zuccherino che addolcisce lo sciroppo troppo amaro, come la morfina che ci evita che il malato ci chieda di farlo guarire davvero.

Non vogliamo accettare la sofferenza, perchè ci spaventa soffrire, perchè esige una risposta più radicale di quella che, oggigiorno, siamo capaci di dare, perchè ci fa vedere quanti passi e quanta fatica dobbiamo essere ancora pronti a sopportare.


[Questa lunghissima - e me ne scuso- riflessione trae origine da "La cura che viene da dentro" di Angelo Vescovi, "Il linguaggio emozionale del corspo" di Laura Bertelè, regalo di Natale del mio caro (ex) prof. Bruno Rinaldi e dalla sua bellissima dedica!]

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