Thursday, September 15, 2005

Il subappalto degli affetti

"La responsabilità affettiva sta celermente passando all'economia di mercato"

[Filippo Facci, Il subappalto degli affetti, Il Giornale, 15.09.2005]


Un bellissimo occhiello, per tornare a parlare di economia di mercato e anche di altri argomenti, più o meno correlati.

In fin dei conti, l'idea che continuo ad avere in testa è sempre una: il più grave errore, che sta davvero minando dalle fondamenta il sistema capitalista, che lo sta denaturando, allontanandolo dai presupposti originari, è la venerazione del "dio denaro".

E' una dato di fatto, una constatazione che non può essere taciuta.
Anche se mi rifiuto di credere che sia una conseguenza ineluttabile di un sistema economico intrisecamente corrotto o corruttibile.
E' proprio questo concetto che non sono ancora riuscita a focalizzare: a me tutto quello che viene definito "connaturato ed inevitabile" puzza. Non ci credo, ma non perchè sia un'incurabile idealista per cui tutto è buono e tutto è bello.
Al contrario, perchè credo nella responsabilità individuale, di cui ha senso parlare solo se, come premessa, vi è la libertà individuale.
Per questo preferisco vivere in un mondo non perfetto, in cui per agire bisogna, per forza, essere pronti a guardare in faccia ciò che non mi piace per tentare di migliorarlo.
Per questo preferisco vivere in un sistema imperfetto, in cui, però, sono io ad essere responsabile delle mie scelte. In cui non posso dare la colpa a nessuno, non posso accusare "il sistema", se sento di aver agito male.
Preferisco vivere in un sistema imperfetto, riflettere su ciò che vedo, tentare di agire diversamente, cercare e trovare risposte ai miei dubbi.
Preferisco poter scrivere questo post.

Dunque, torniamo all'idea originaria, dopo questa lunga digressione.

Strettamente correlato alla venerazione del "dio denaro", a mio parere, vi è il "miraggio del domani". Quel fenomeno per cui "meglio una gallina domani con anche l'uovo a cui oggi ho rinunciato". Se no non mi spiegherei le 70 ore settimanali citate nell'articolo.
"Domani, un giorno, quando sarò ricco, quando avrò tempo, quando sarò in pensione...". Viaviamo protratti nel futuro. L'"oggi" ha più senso se, nella nostra testa, può diventare "ieri". Il lavoro fa parte dell'oggi, il piacere del domani.

Se mi chiedessero, un giorno, "Lavorare per vivere o vivere per lavorare"? mi metterei a ridere. Che senso ha contrapporre vita e lavoro? Non si vive quando si lavora? C'è una vita più vita, una vita più vera e una vita di seconda classe, che merita un po' di meno? L'oggi di cui fa parte il lavoro non è vita?

Siccome, poi, siamo sempre intrinsecamente insoddisfatti, finiamo sempre per vivere, -anzi, non vivere- in attesa. Del domani, della vita vera. Un circolo vizioso.

Cerchiamo di venirne fuori. La vita è vita. Il lavoro è un aspetto della nostra vita, importante. Forse un po' troppo, perchè niente gira più senza denaro, perchè vorremmo sempre di più, ma pur sempre un aspetto. E va valorizzato. Il lavoro è un' occasione per vivere, il che significa imparare, crescere, scoprirci, migliorarci, metterci in gioco, in dicussione, intessere relazioni. E, ancora, faticare, sudare, far fruttare il nostro tempo, per coloro a cui teniamo, per il futuro, anche, è vero, ma anche per noi stessi. Per vivere qui ed ora.

Dobbiamo essere onesti, smetterla di vivere aprendo parentesi che non siamo mai in grado di chiudere.
In fin dei conti, dobbiamo smettere di credere che tutto dipenda dal "che cosa" facciamo e non dal "come".

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